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SEBASTIANO AGLIECO:  
  Marco Fregni, “Dialoghi col padre”, Edizioni del laboratorio 2007  
 

Così Elio Grasso nella prefazione: «Talvolta non c’è scelta, […]: la malattia e la morte del padre proseguono quella vita lasciata in eredità ai vivi, a chi resta nel mondo delle parole». E in effetti questa mancanza di scelta rappresenta l’ossessione di un racconto che si sviluppa nel tempo della perdita, dimenticando il proprio tempo, le necessarie tappe della crescita di chi è rimasto. Non una cronaca, ma un requiem dell’ineluttabile. Così il libro ha il tono colloquiale e malinconico delle parole che si rivolgono per mancanza, lo stesso dell’Ungaretti de Il Dolore, ma qui con esiti rovesciati; il peso della mancanza del padre, questa volta spetta al figlio.
Si può educare attraverso un atto di assenza? Evidentemente sì: «è tua eco lontana, l’essenziale, umida/voce che segna ancora distanze e lieve/sostiene profili di monti e pianure/già viste, intraviste, composte nel nostro/paesaggio». Paesaggi ancora non finiti, definiti; perché la conoscenza delle cose è un gesto mentale, qualcosa che va imparato da qualcuno che insegna. E quindi, in questa assenza, ecco stagioni di trapasso, autunni, lumi, il trascinarsi del tempo quotidiano. Sono poesie, quindi che non approdano a quella terra di confine in cui i morti ci salutano lontani e ci lasciano vivere. Non poesie per imparare a vivere dimenticando, ma per diventare padri doloranti, per nutrire una sete che, dal padre, è giunta a un altro padre. «Sarai un giorno, giorno futuro, a me/sconosciuto, morto come altra persona/morta?//Sottrarre ogni giorno ombra all’ombra.//D’ogni padre, padre».
Questa acerbità del dolore della vita giunge dunque ad altri, come un testamento. Il linguaggio si fa epigrafe, come nella forma delle cerimonie post mortem, ma senza quel gesto rassicurante del consegnare per sempre il dolore a un’immagine scolpita sulla pietra. Per porre fine. Piuttosto un atto inconcluso e non pacificato fino all’ultimo testo: «Dove/ora/la tua/voce/di/padre?//Perduta/per/sempre». Quasi un balbettio; nessuna fiducia verso le parole che non salvano: segni provvisori e inefficaci per dire delle cose che passano e si mutano sotto i nostri occhi, fino alla loro ineluttabile conclusione.

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SEBASTIANO AGLIECO:  
  Su “ Racconti dell’uomo grigio”, Edizioni Progetto Cultura, Roma  
 

Un uomo grigio; una casa grigia che si trasforma - in proporzioni e struttura - come le sinapsi di una mente; inventa stanze e le cancella, varia la direzione delle scale, una volta rivolte verso il soffitto, una volta verso la cantina. Si edifica lentamente in altezza, sedimentandosi in strati, in archeologie. Una casa che abita, non è abitata.
Si tratta di una favola dove nulla accade veramente se non variazioni, sfumature. La parola stessa del racconto, raffinatissima, sospesa tra Kafka e Calvino, si esibisce nella ricerca incessante della sfumatura giusta; come una porta che permetta l'entrare in qualche altro luogo. Questi capitoli del libro hanno la forma di racconti; non trame ma viaggi, immaginando - nel senso letterario del “creare immagini” -
Così assistiamo al piccolo viaggio dell'uomo grigio verso il suo ufficio; alla descrizione della lentezza, dell'esattezza, concentrato per trovare la posizione giusta, la chiave per compiere qualcosa che non può più ingannare, vacillare. E, improvvisamente, da dietro la finestra, appare un'ombra. Nient'altro. Oppure all'esperienza del viaggio per acqua dove le parole si occupano del gorgoglio, dell'andare verso il fondo; dell'unione delle mille voci dell'acqua, presenti, passate e future; del grande coro che forma l'oceano.
O il viaggio tra le nuvole, dove l'uomo grigio si perde, innalzandosi, senza riuscire a trovare la strada del ritorno, se non aiutato dall'improvvisa esplosione di un fulmine che lo riporta sulla terra.
E' un racconto sulla malinconia, il cui senso si concretizza nella realtà simbolica della casa, casa dell'essere, anima. L'uomo grigio ha questo compito di eseguire variazioni, esercizi verso una metafisica della fantasia, àncora di salvezza, forse l'unica rimasta, per immaginare un mondo più a misura di anima; l'anima scissa tra maschio e femmina, tra dentro e fuori, realtà psichica e materia, fra essere e non essere, partenza e sosta.
Ma la malinconia, qui, non è malattia. E', piuttosto, capacità dell'intelletto più complesso, capace di non farsi accecare “dall'estrema trasparenza del codice, dall'usuale accettazione del fluire, del quotidiano offrirsi del segno”, p. 73. La fantasia tutta permea e permette di leggere dentro e intorno a sé.
Questi esercizi di gesti minimi, di posture calcolate come la rotta tracciata sulla carta dei marinai, sono essenziali per non perdere la rotta e volare via lontano. L'uomo grigio deve sempre tornare alla sua casa, a un villaggio di vicoli stretti e intricati, ai suoi esercizi spirituali di senso. Ciò che si cela nell'infinitamente lontano, è anche questa esperienza di variazione del grigio, ancora più difficile e concentrata proprio perché non è la casa che anima vuole abitare, archivio di tutte le esperienze, catalogate e spiegate per avere un senso.
La mappa in cui si muove il libro, dunque, è il riflesso dell'esperienza che potrebbe anche dannarci se ci attardiamo a rincorrere per gelosia “un grigio colore d'ombra. Un'ombra somigliante, per sfumature, al più bel desiderio”, p. 89.
Si tratta del gesto di rubare l'ombra a un'anatra, la quale, “salì di colpo in alto, perdendo ogni legame con la terra (...) Senza la propria tenue somiglianza, l'animale fu costretto a volare sempre più in su, fino a dimenticarsi di essere”, p. 91. L'anima, staccata dal corpo, è condannata a svanire, a morire. Ma ha il tempo per un'ultima vendetta. Riesce a rompere lo specchio in cui il sorriso dell'uomo si è impresso, strappandoglielo. “E da quel giorno l'uomo (...) ha perduto ogni sorriso”, p. 93.
Segue, come naturale conseguenza di questo gesto, il racconto del viaggio nella città degli uomini. Una città vuota, spopolata, perfettamente grigia e perfettamente geometrica. Senza chiarità, senza ombra. E' l'esperienza dell'avvicinamento a un luogo reale, questo sì veramente grigio, disumano, ammantato della chiarezza di un centro, raggiunto il quale si sente il bisogno di retrocedere verso le proprie domande, a una casa che ci assomiglia, che sentiamo nostra perché più confusa, sensibile ai nostri cambiamenti, alla nostra piccola angoscia di uomini radicati nel presente dell'esperienza. Forse perché il senso non esiste, la verità non esiste.

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