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MARIELLA DE SANTIS  
Ancora Bruges
(Suggestioni) a partire da I canali di Bruges (Notturni) di Marco Fregni
 
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Emergono talvolta come da fondali inesplorati figure di luoghi che non avremmo cercato di incontrare o conoscere e turbano la nostra percezione sentimentale, aprono a quelle domande senza corpo razionale, fatte di emozioni da decontrarre, interrogare e fare in modo che ci dicano qualcosa in più di noi, del passaggio millenario di cui siamo deboli portatori.
Bruges è uno di questi luoghi. Non densamente frequentato dall’immaginario letterario, poetico o cinematografico, ma inalienabile da sé ad incontro avvenuto.
La cittadina di Bruges è nella parte fiamminga del Belgio, ammantata da un glorioso passato che raggiunse il massimo fulgore dal XII al XIV secolo, dovuto innanzitutto alla forza commerciale e poi economica e quindi artistica che la città sviluppò quasi casualmente, grazie ad una tempesta che nel 1134 aprì un canale nella palude costiera, mettendola in collegamento diretto col mare e arrivando sino a Damme che divenne il suo porto. Una fortuna casuale quindi, dovuta alla natura e da essa rinnegata quando il mare, nel XV secolo, tornò a insabbiare il canale relegando Bruges nel medesimo sonno che gli incantesimi davano alle protagoniste delle fiabe antiche.
Una città quindi che edifica la propria notorietà a partire dal movimento copioso di merci e commerci, col seguito di banchieri che decidono di fare bello il luogo degli affari dotandolo di magnifiche costruzioni gotiche – ancora visibili – e che attrae poi le mire di regnanti, portando anche a sanguinarie guerre.
Le curiosità storiche su Bruges possono essere da ognuno soddisfatte facilmente grazie a una guida o alla bibbia internauta, ho soltanto voluto delineare in poche righe alcuni tratti di vita e morte imprescindibili da questa città e che si ritrovano nelle poche – rimarchevoli – opere che dentro o attorno a Bruges hanno trovato un destino di compimento.
Toccheremo quindi il potente e sommesso romanzo di Georges Rodenbach Bruges la morta, poi il film In Bruges – La coscienza dell’assassino, la traccia della medesima città in alcune poesie di noti autori, mai dimenticando che la spinta al movimento è arrivata dalla lettura dei “notturni” di Marco Fregni I canali di Bruges.
Cercheremo di capire quale sia il genio di questo luogo che ancora soffia su faville di fuochi pronti a riaccendersi e di quali irrisolte domande, ricordi senza memoria, nostalgie senza esperienza sia portatore.
Ne I canali di Bruges Marco Fregni fa luogo centrale del suo linguaggio poetico l’esizialità. Parole misurate e ritmo rarefatto. Aggettivazione reiterata in alcune scelte che servono ad accentuare il carattere di luce calante sul mondo osservabile: « Mi chiedo / davvero // se esistano / queste acque che / lambiscono, notturne, / i canali, così le luci / e le case / che qui, specchiate, / muoiono un poco / ogni notte […]» mentre quello appena osservato pare subitaneamente destinato ad un oblio: «Ancora / non so / se riconosco / questi ponti / senza / più acque / e le vie calme di luce serale / che accompagnano / e di cui ora / dico […]». Il peso del verso è quello di una carezza pudica ma non meno vitale di un abbraccio. Il tema della rinuncia esala dalle acque strette tra canali analogamente a vite strette da destini irredimibili: «Accade, / talvolta, / che i canali / sospingano / verso la notte, / silenziosi / evitino ogni bagliore / svelando la loro insonnia / più segreta / e nell’esatto istante della resa, / feriscano, / per un solo momento, / l’indolore artiglio / dell’acqua».
E il tema dell’irredimibilità – trattato con lingua e cifra diversa ?– troviamo tanto nel romanzo di Georges Rodenbach quanto nel film, a tratti umoristico, In Bruges diretto da Martin MacDonagh. In Bruges la morta seguiamo per le brumose strade della città e sotto il suono delle campane malinconiche che cade dall’alto delle numerose torri cittadine, la vita solitaria di Hugh vecchio vedovo quarantatreenne il quale, all’indomani del funerale dell’amatissima moglie, decide di trasferirsi a Bruges, unica città la cui malinconia può degnamente attagliarsi al suo stato d’animo. La casa è un reliquiario dove mobili, oggetti e persino una lunga treccia di capelli della defunta sono custoditi da lui e dalla zelante governante Barbe, donna dalla timorata religiosità. Una sera, lungo un quai, Hugh vede una donna che è l’assoluto ritratto della moglie morta. Ne è folgorato, la segue, scopre che è una ballerina dall’evidente opportunismo ma ugualmente non si sottrae ad una relazione che lo espone progressivamente al dileggio e alla riprovazione dei concittadini e della domestica Barbe che abbandona la casa padronale quando viene a sapere che la donna vi si recherà in visita. Circostanza quest’ultima che condurrà ad un epilogo drammatico poiché quando la giovane Jane canzonerà e profanerà il tempio del ricordo ridendo e agitando la lunga treccia della donna amata da Hugh, viene da questi strangolata proprio a mezzo di quel venerato feticcio. Tutto questo è raccontato in meno di cento pagine, ma con lentezza, seppure nulla degli stati d’animo più sottili viene sottinteso, con una scrittura delicata, morbida come fosse essa stessa fatta di nebbia e bruma ma misurata, mai ridicola pur nel grottesco che descrive, soltanto infinitamente partecipe ad un dramma di alienazione, di impossibilità a riconoscersi in sé.
Nel film i protagonisti sono due killers inspiegabilmente inviati dal loro capo a Bruges, in attesa di misteriosi ordini. Uno è Ken (Brendan Gleeson) un signore di mezza età dall’indole bonaria, a dispetto della attività cruenta con cui si procaccia da vivere, che gira per Bruges ammirato dalle bellezze che gli si offrono alla sguardo e affatto ansioso di conoscere i motivi della misteriosa trasferta. L’altro, il giovane Ray (Colin Farrell), è insofferente alla maestosità della città, in fondo preoccupato dal recondito motivo per cui è stato mandato in Belgio e mentre Ken cerca di entrare in contatto con l’anima del luogo, Ray si dedica ai minimi piaceri alla sua portata dati dalle birre e dalle donne e abbandonandosi ad incontri non privi di un alone di torbidezza. Mentre li seguiamo muoversi nella città scopriamo, grazie al meccanismo del flashback, il personale dramma che ognuno dei due custodisce senza sostanziale condivisione reciproca ma che diverrà il motivo di svolta nell’azione del film. Il più anziano, attonito dalla perdita della propria moglie, cerca nell’arte risposte a interrogativi esistenziali che lo turbano, mentre il giovane è tormentato dal rimorso di aver ucciso un bambino nell’esecuzione del suo primo ingaggio criminale. Ken cerca nella città motivi che nutrano il suo desiderio di vita a dispetto del dolore, l’altro la forza per compiere un atto suicidale che lo liberi dal tormento. Il film ha un epilogo drammatico quando a Ken viene svelato che il motivo per cui è a Bruges è quello di uccidere Ray per punizione dell’errore commesso. Tentando di proteggere il giovane amico cade dal Belfort, la rinomata torre gotica, morendo, Ray viene ferito dal capo – giunto a Bruges quando capisce che qualcosa rallenta l’esecuzione del suo ordine – e a sua volta uccide un nano sul set di un film ma che scambia – a causa dei costumi di scena – per un bambino e allora, ritenendosi macchiato dalla stessa colpa di Ray, si uccide. Tutto questo avviene tra momenti di pathos, altri di ilarità e grottesco.
Non sfugge che ci siano alcuni temi che ricorrono come nel romanzo: il peso del passato inalienato, la bellezza malinconica e talora esaltante di cui si veste quel pallido sentimento, le viscere scure della città (Jeanne nel romanzo, gli incontri di Ray nel film), il destino che cambia e si rivolge contro chi riteneva di averlo tra le mani.
Ci sono passaggi della vita da cui non si può tornare indietro o forse si può, ma questo comporta la perdita di qualcosa a cui si molto affezionati che è la replica infinita dell’idea di sé ovvero di ciò che costituisce filtro, specchio e valore di noi nel mondo.
Così per il protagonista del romanzo, l’idea di sé amato marito di una donna profondamente riamata, in un rapporto eletto a stemma di nobiltà dell’animo diviene la tomba della sua dignità. La Bruges scelta quale sacrario di fedeltà, diviene il palcoscenico della sua caduta nel ridicolo e dello stigma. Hugues lega se stesso alle acque morte, ai canali, ai suoni malinconici delle campane cercando e ancora cercando solo la conferma del suo nobile sentire e, in fondo, senza un vero rapporto con la vita che la città respira e così da alterazione nasce alterazione e quello che lui da un certo momento in poi vede è solo immagine grottesca e deformata di un anelito e la realtà imposta a sé e all’altro improvvisamente si ribella, trasformando le umide atmosfere nebbiose in un sipario di sangue che miserabilmente si abbatte sulla sua vita, su quella di Jeanne e anche dei bigotti cittadini attoniti da quello che vivono come scandalo.
Il momento topico dell’azione avviene proprio durante l’attesa processione del Santo Sangue. Il richiamo al sangue a fine del libro, arriva dopo che Rodenbach ci ha condotto dentro questa raccolta landa di silenzio ovattato, cigni candidi e canali e sembra far apparire il violento spirito del luogo nelle sembianze del demone della fuga. Rodenbach abbandonò il Belgio perché tediato e soffocato da quella ristrettezza moralistica e culturale che permeava il paese e si trasferì a Parigi dove incontrò amici ed estimatori ma dentro di sé forse portava accanto alla nostalgia del bello, la consapevolezza che restarvene attaccato avrebbe portato alla sua morte spirituale.
Marco Pagni nel primo dei suoi notturni si chiede se quello che la cittadina fiamminga gli consegna sia forma vera o illusione, forma che indugia egli dice e ritorna quindi a distanza di oltre un secolo la stessa emozione di sospensione dalla realtà che domina il romanzo rodenbachiano.
Caro amico di Rodenbach fu Stéphane Mallarmé che in nel suo componimento Rimembranza di amici belgi, così ricorda Bruges: «Carissimi incontrati nella giammai banale / Bruges moltiplicante l’alba al morto canale / Con il lento passaggio sparso di molti cigni / Quando solennemente quella città m’apprese / Quali tra i propri figli un altro vol designi / Lo spirito a irradiare pronto com’ali tese.»
Ancora tornano le forme chiuse dei canali quasi metafore di destini stretti in un letto intrasformabile e il candore dei cigni, messaggeri di una spiritualità inalterata tra gli umani e l’avverbio che Mallarmé usa, solennemente, è ancora un legame con lo spirito del luogo benché la chiusa sullo spirito irradiato e pronto alla risposta con le ali tese non può non farci pensare ad un medesimo impeto di passione e fuga.
L’impeto di passione e fuga è sentimento evidente nel film In Bruges. Le inquadrature rendono merito all’incanto delle vestigia gotiche della cittadina fiamminga, ma a dispetto delle ottime riprese in cui l’architettura incombe severa, i personaggi che incontriamo oscillano tra il grottesco e l’irridente tanto che una delle scene cruciali del film ha per sfondo il Giudizio Universale di Bosch – visibile al Groeningemuseumin – davanti al quale i due sodali parlano di inferno paradiso e purgatorio e della stagione del Tottenham.
Ancora solennità e grottesco insieme. Perché questa città pare evocare tale dicotomia? Forse perché il grottesco arriva quando la solennità è forzata, quando essa deve divenire tratto identitario peculiare e nobile anche in assenza di una persistente forza spirituale. A queste condizioni, la solennità è tirannia sugli animi, bisogno di dominio degli spiriti. Intesa a dominare gli animi (si rifletta: i dittatori amano l’idea della solennità e cadono sempre nella realtà del ridicolo). Ritroviamo questo graffio nel romanzo, in cui le struggenti pagine dell’abbandono di Hughes da parte della scandalizzata governante Babe segnano l’inizio della caduta dell’uomo in una deriva esiziale perché ormai consapevole di essere fuori dalla comunità degli uomini rispettabili agli occhi del mondo e pertanto senza più nulla che gli potesse dare un valore nel mondo.
Il grottesco non affiora invece nei versi di Marco Fregni né negli altri pochi a Bruges ispirati che si possono reperire in rete (Rossetti, lo stesso Rodenbach) poiché la poesia è disciplina di ospitanza. Chiede riguardo e ne dona, accoglie dal mondo e al mondo restituisce in differente forma quello che già gli appartiene.
Non posso chiudere senza soffermarmi sull’elemento onnipresente dell’acqua, non portata dall’immensità del mare, né dall’irrequietezza del fiume o dalla placidità del lago, ma raccolta nei canali e in quella forma chiusa che la replica ossessivamente, ancor più si lega a quella simbologia di vita e morte, inizio e fine, battesimo e inumazione. In una delle sue poche poesie, Rodenbach declama: «La città è morta, irreparabilmente morta! / di una lenta anemia / di un segreto tormento».
Ecco quindi scivolare verso di noi una forza evidente dello spirito attrattivo di Bruges, la potenza del segreto tormento che è quello di Hughes, di Ken, Ray e anche ombra diffusa tra i testi di Fregni. Sentimento questo che rimanda alla dolorosa dualità del vivere dove si è testimoni e attori, comprimari o spettatori di una vicenda alterna di bene e male, decoro o degrado, sotto le acquisite nobilitate forme del vivere, ancora siamo stretti nel non poter vivere ed essere solo luce, solo bene. Solo angeli sottratti alla caduta.
Milano, nell’ultimo di gennaio 2011
Mariella De Santis

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