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Emergono talvolta come da fondali inesplorati figure di
luoghi che non avremmo cercato di incontrare o conoscere e turbano la
nostra percezione sentimentale, aprono a quelle domande senza corpo razionale,
fatte di emozioni da decontrarre, interrogare e fare in modo che ci dicano
qualcosa in più di noi, del passaggio millenario di cui siamo deboli
portatori.
Bruges è uno di questi luoghi. Non densamente frequentato dall’immaginario
letterario, poetico o cinematografico, ma inalienabile da sé ad
incontro avvenuto.
La cittadina di Bruges è nella parte fiamminga del Belgio, ammantata
da un glorioso passato che raggiunse il massimo fulgore dal XII al XIV
secolo, dovuto innanzitutto alla forza commerciale e poi economica e quindi
artistica che la città sviluppò quasi casualmente, grazie
ad una tempesta che nel 1134 aprì un canale nella palude costiera,
mettendola in collegamento diretto col mare e arrivando sino a Damme che
divenne il suo porto. Una fortuna casuale quindi, dovuta alla natura e
da essa rinnegata quando il mare, nel XV secolo, tornò a insabbiare
il canale relegando Bruges nel medesimo sonno che gli incantesimi davano
alle protagoniste delle fiabe antiche.
Una città quindi che edifica la propria notorietà a partire
dal movimento copioso di merci e commerci, col seguito di banchieri che
decidono di fare bello il luogo degli affari dotandolo di magnifiche costruzioni
gotiche – ancora visibili – e che attrae poi le mire di regnanti,
portando anche a sanguinarie guerre.
Le curiosità storiche su Bruges possono essere da ognuno soddisfatte
facilmente grazie a una guida o alla bibbia internauta, ho soltanto voluto
delineare in poche righe alcuni tratti di vita e morte imprescindibili
da questa città e che si ritrovano nelle poche – rimarchevoli
– opere che dentro o attorno a Bruges hanno trovato un destino di
compimento.
Toccheremo quindi il potente e sommesso romanzo di Georges Rodenbach Bruges
la morta, poi il film In Bruges – La coscienza dell’assassino,
la traccia della medesima città in alcune poesie di noti autori,
mai dimenticando che la spinta al movimento è arrivata dalla lettura
dei “notturni” di Marco Fregni I canali di Bruges.
Cercheremo di capire quale sia il genio di questo luogo che ancora soffia
su faville di fuochi pronti a riaccendersi e di quali irrisolte domande,
ricordi senza memoria, nostalgie senza esperienza sia portatore.
Ne I canali di Bruges Marco Fregni fa luogo centrale del suo linguaggio
poetico l’esizialità. Parole misurate e ritmo rarefatto.
Aggettivazione reiterata in alcune scelte che servono ad accentuare il
carattere di luce calante sul mondo osservabile: « Mi chiedo / davvero
// se esistano / queste acque che / lambiscono, notturne, / i canali,
così le luci / e le case / che qui, specchiate, / muoiono un poco
/ ogni notte […]» mentre quello appena osservato pare subitaneamente
destinato ad un oblio: «Ancora / non so / se riconosco / questi
ponti / senza / più acque / e le vie calme di luce serale / che
accompagnano / e di cui ora / dico […]». Il peso del verso
è quello di una carezza pudica ma non meno vitale di un abbraccio.
Il tema della rinuncia esala dalle acque strette tra canali analogamente
a vite strette da destini irredimibili: «Accade, / talvolta, / che
i canali / sospingano / verso la notte, / silenziosi / evitino ogni bagliore
/ svelando la loro insonnia / più segreta / e nell’esatto
istante della resa, / feriscano, / per un solo momento, / l’indolore
artiglio / dell’acqua».
E il tema dell’irredimibilità – trattato con lingua
e cifra diversa ?– troviamo tanto nel romanzo di Georges Rodenbach
quanto nel film, a tratti umoristico, In Bruges diretto da Martin MacDonagh.
In Bruges la morta seguiamo per le brumose strade della città e
sotto il suono delle campane malinconiche che cade dall’alto delle
numerose torri cittadine, la vita solitaria di Hugh vecchio vedovo quarantatreenne
il quale, all’indomani del funerale dell’amatissima moglie,
decide di trasferirsi a Bruges, unica città la cui malinconia può
degnamente attagliarsi al suo stato d’animo. La casa è un
reliquiario dove mobili, oggetti e persino una lunga treccia di capelli
della defunta sono custoditi da lui e dalla zelante governante Barbe,
donna dalla timorata religiosità. Una sera, lungo un quai, Hugh
vede una donna che è l’assoluto ritratto della moglie morta.
Ne è folgorato, la segue, scopre che è una ballerina dall’evidente
opportunismo ma ugualmente non si sottrae ad una relazione che lo espone
progressivamente al dileggio e alla riprovazione dei concittadini e della
domestica Barbe che abbandona la casa padronale quando viene a sapere
che la donna vi si recherà in visita. Circostanza quest’ultima
che condurrà ad un epilogo drammatico poiché quando la giovane
Jane canzonerà e profanerà il tempio del ricordo ridendo
e agitando la lunga treccia della donna amata da Hugh, viene da questi
strangolata proprio a mezzo di quel venerato feticcio. Tutto questo è
raccontato in meno di cento pagine, ma con lentezza, seppure nulla degli
stati d’animo più sottili viene sottinteso, con una scrittura
delicata, morbida come fosse essa stessa fatta di nebbia e bruma ma misurata,
mai ridicola pur nel grottesco che descrive, soltanto infinitamente partecipe
ad un dramma di alienazione, di impossibilità a riconoscersi in
sé.
Nel film i protagonisti sono due killers inspiegabilmente inviati dal
loro capo a Bruges, in attesa di misteriosi ordini. Uno è Ken (Brendan
Gleeson) un signore di mezza età dall’indole bonaria, a dispetto
della attività cruenta con cui si procaccia da vivere, che gira
per Bruges ammirato dalle bellezze che gli si offrono alla sguardo e affatto
ansioso di conoscere i motivi della misteriosa trasferta. L’altro,
il giovane Ray (Colin Farrell), è insofferente alla maestosità
della città, in fondo preoccupato dal recondito motivo per cui
è stato mandato in Belgio e mentre Ken cerca di entrare in contatto
con l’anima del luogo, Ray si dedica ai minimi piaceri alla sua
portata dati dalle birre e dalle donne e abbandonandosi ad incontri non
privi di un alone di torbidezza. Mentre li seguiamo muoversi nella città
scopriamo, grazie al meccanismo del flashback, il personale dramma che
ognuno dei due custodisce senza sostanziale condivisione reciproca ma
che diverrà il motivo di svolta nell’azione del film. Il
più anziano, attonito dalla perdita della propria moglie, cerca
nell’arte risposte a interrogativi esistenziali che lo turbano,
mentre il giovane è tormentato dal rimorso di aver ucciso un bambino
nell’esecuzione del suo primo ingaggio criminale. Ken cerca nella
città motivi che nutrano il suo desiderio di vita a dispetto del
dolore, l’altro la forza per compiere un atto suicidale che lo liberi
dal tormento. Il film ha un epilogo drammatico quando a Ken viene svelato
che il motivo per cui è a Bruges è quello di uccidere Ray
per punizione dell’errore commesso. Tentando di proteggere il giovane
amico cade dal Belfort, la rinomata torre gotica, morendo, Ray viene ferito
dal capo – giunto a Bruges quando capisce che qualcosa rallenta
l’esecuzione del suo ordine – e a sua volta uccide un nano
sul set di un film ma che scambia – a causa dei costumi di scena
– per un bambino e allora, ritenendosi macchiato dalla stessa colpa
di Ray, si uccide. Tutto questo avviene tra momenti di pathos, altri di
ilarità e grottesco.
Non sfugge che ci siano alcuni temi che ricorrono come nel romanzo: il
peso del passato inalienato, la bellezza malinconica e talora esaltante
di cui si veste quel pallido sentimento, le viscere scure della città
(Jeanne nel romanzo, gli incontri di Ray nel film), il destino che cambia
e si rivolge contro chi riteneva di averlo tra le mani.
Ci sono passaggi della vita da cui non si può tornare indietro
o forse si può, ma questo comporta la perdita di qualcosa a cui
si molto affezionati che è la replica infinita dell’idea
di sé ovvero di ciò che costituisce filtro, specchio e valore
di noi nel mondo.
Così per il protagonista del romanzo, l’idea di sé
amato marito di una donna profondamente riamata, in un rapporto eletto
a stemma di nobiltà dell’animo diviene la tomba della sua
dignità. La Bruges scelta quale sacrario di fedeltà, diviene
il palcoscenico della sua caduta nel ridicolo e dello stigma. Hugues lega
se stesso alle acque morte, ai canali, ai suoni malinconici delle campane
cercando e ancora cercando solo la conferma del suo nobile sentire e,
in fondo, senza un vero rapporto con la vita che la città respira
e così da alterazione nasce alterazione e quello che lui da un
certo momento in poi vede è solo immagine grottesca e deformata
di un anelito e la realtà imposta a sé e all’altro
improvvisamente si ribella, trasformando le umide atmosfere nebbiose in
un sipario di sangue che miserabilmente si abbatte sulla sua vita, su
quella di Jeanne e anche dei bigotti cittadini attoniti da quello che
vivono come scandalo.
Il momento topico dell’azione avviene proprio durante l’attesa
processione del Santo Sangue. Il richiamo al sangue a fine del libro,
arriva dopo che Rodenbach ci ha condotto dentro questa raccolta landa
di silenzio ovattato, cigni candidi e canali e sembra far apparire il
violento spirito del luogo nelle sembianze del demone della fuga. Rodenbach
abbandonò il Belgio perché tediato e soffocato da quella
ristrettezza moralistica e culturale che permeava il paese e si trasferì
a Parigi dove incontrò amici ed estimatori ma dentro di sé
forse portava accanto alla nostalgia del bello, la consapevolezza che
restarvene attaccato avrebbe portato alla sua morte spirituale.
Marco Pagni nel primo dei suoi notturni si chiede se quello che la cittadina
fiamminga gli consegna sia forma vera o illusione, forma che indugia egli
dice e ritorna quindi a distanza di oltre un secolo la stessa emozione
di sospensione dalla realtà che domina il romanzo rodenbachiano.
Caro amico di Rodenbach fu Stéphane Mallarmé che in nel
suo componimento Rimembranza di amici belgi, così ricorda Bruges:
«Carissimi incontrati nella giammai banale / Bruges moltiplicante
l’alba al morto canale / Con il lento passaggio sparso di molti
cigni / Quando solennemente quella città m’apprese / Quali
tra i propri figli un altro vol designi / Lo spirito a irradiare pronto
com’ali tese.»
Ancora tornano le forme chiuse dei canali quasi metafore di destini stretti
in un letto intrasformabile e il candore dei cigni, messaggeri di una
spiritualità inalterata tra gli umani e l’avverbio che Mallarmé
usa, solennemente, è ancora un legame con lo spirito del luogo
benché la chiusa sullo spirito irradiato e pronto alla risposta
con le ali tese non può non farci pensare ad un medesimo impeto
di passione e fuga.
L’impeto di passione e fuga è sentimento evidente nel film
In Bruges. Le inquadrature rendono merito all’incanto delle vestigia
gotiche della cittadina fiamminga, ma a dispetto delle ottime riprese
in cui l’architettura incombe severa, i personaggi che incontriamo
oscillano tra il grottesco e l’irridente tanto che una delle scene
cruciali del film ha per sfondo il Giudizio Universale di Bosch –
visibile al Groeningemuseumin – davanti al quale i due sodali parlano
di inferno paradiso e purgatorio e della stagione del Tottenham.
Ancora solennità e grottesco insieme. Perché questa città
pare evocare tale dicotomia? Forse perché il grottesco arriva quando
la solennità è forzata, quando essa deve divenire tratto
identitario peculiare e nobile anche in assenza di una persistente forza
spirituale. A queste condizioni, la solennità è tirannia
sugli animi, bisogno di dominio degli spiriti. Intesa a dominare gli animi
(si rifletta: i dittatori amano l’idea della solennità e
cadono sempre nella realtà del ridicolo). Ritroviamo questo graffio
nel romanzo, in cui le struggenti pagine dell’abbandono di Hughes
da parte della scandalizzata governante Babe segnano l’inizio della
caduta dell’uomo in una deriva esiziale perché ormai consapevole
di essere fuori dalla comunità degli uomini rispettabili agli occhi
del mondo e pertanto senza più nulla che gli potesse dare un valore
nel mondo.
Il grottesco non affiora invece nei versi di Marco Fregni né negli
altri pochi a Bruges ispirati che si possono reperire in rete (Rossetti,
lo stesso Rodenbach) poiché la poesia è disciplina di ospitanza.
Chiede riguardo e ne dona, accoglie dal mondo e al mondo restituisce in
differente forma quello che già gli appartiene.
Non posso chiudere senza soffermarmi sull’elemento onnipresente
dell’acqua, non portata dall’immensità del mare, né
dall’irrequietezza del fiume o dalla placidità del lago,
ma raccolta nei canali e in quella forma chiusa che la replica ossessivamente,
ancor più si lega a quella simbologia di vita e morte, inizio e
fine, battesimo e inumazione. In una delle sue poche poesie, Rodenbach
declama: «La città è morta, irreparabilmente morta!
/ di una lenta anemia / di un segreto tormento».
Ecco quindi scivolare verso di noi una forza evidente dello spirito attrattivo
di Bruges, la potenza del segreto tormento che è quello di Hughes,
di Ken, Ray e anche ombra diffusa tra i testi di Fregni. Sentimento questo
che rimanda alla dolorosa dualità del vivere dove si è testimoni
e attori, comprimari o spettatori di una vicenda alterna di bene e male,
decoro o degrado, sotto le acquisite nobilitate forme del vivere, ancora
siamo stretti nel non poter vivere ed essere solo luce, solo bene. Solo
angeli sottratti alla caduta.
Milano, nell’ultimo di gennaio 2011
Mariella De Santis
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