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MARIO MORONI  
In margine poetico
a “DIALOGHI CON IL PADRE” di Marco Fregni
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Qui al punto di blocco, caro Marco, posso adesso ripensare a quando tuo padre diceva di essere stanco, diceva: “lasciatemelo il tempo autunnale” in un giorno calmo con il cielo aperto, come in una stanza aperta, enorme, sconfinata. Bastava la sua presenza a sostenere le parole attraversate da un incessante rumore delle onde. Bastava la sera in penombra, con occhi spenti. A volte il silenzio parla, pronuncia cose enormi, perfino qui dall’altra parte dell’Atlantico, in scene che sembrano familiari, ma che invece vanno guardate con gran riverenza, solennità. Come quando vènti leggeri rifiutano di tacere e riportano indietro lineamenti delle cose, delle mani. La vita di un uomo è segnata da linee confuse, gesti degli anni, ed ancora silenzi, altri silenzi, gesti tracciati nell’aria, anche qui dall’altra parte dell’Atlantico. Non c’è mai abbastanza tempo per salutare un padre. Non bastano cartoline ed altri messaggi, non bastano le parole appena pronunciate, non bastano anni ed anni. Il semplice congedo è solo un attimo, è lo sprazzo mattutino, ma non basta, nemmeno quello basta. Soprattutto dopo il ventisette settembre, dopo che i pensieri sono andati e la bocca si chiude. La morte è un abbandono? E’ una forma di partenza? Qualcuno se lo chiede, anzi tutti se lo chiedono, anche se non lo ammettono. E’ una dispersione della materia, un ritorno alla terra? Anzi, è un allontanamento, ma da dove e per dove? Ma no, per molti invece è la fine di un inseguimento.
Prima o poi il silenzio ci raggiunge, ci tocca. Sai come avviene? Te lo confesso: c’è un mucchio di gente che parla in tono familiare, traffico intorno, rumore delle cose. Poi poco a poco si spengono le luci, si abbassano i volumi, il silenzio s’avvicina, arriva da lontano, da qualche punto che abbiamo lasciato indietro, nascosto. Poco a poco ci raggiunge, infine ci tocca. E’ lì che nasce un profondo rispetto per il silenzio, perché è la fase ultima, l’ultimo stadio: in silenzio e al buio, è condizione più vicina a quella della morte. La vita è chiaroscuri, solarità, luci varie, intermittenti, alti e bassi, passioni e delusioni, ronzii, ma la morte, la morte no, è solo silenzio nel buio. Ora la scena cambia, in una stanza, al buio, il silenzio è rotto da una voce, da due voci. Le due voci si cercano, s’intuiscono, un’aria calma nell’assenza di respiro. Ritornano luoghi amati, sfiorati dalle dita, ora un segnale:

PRIMA VOCE : “Verso l’unica morte si va instancabili, fatti per morire.”

SECONDA VOCE : ”Sì, programmati per morire, anzi nati per il preciso scopo di morire.”

PRIMA VOCE : “Sì, è buffo, verso l’unica morte possibile.”
SECONDA VOCE : “E qual è l’unica morte possibile?”
PRIMA VOCE : “Ma è la morte stessa, ce n’è una sola, o sbaglio?
SECONDA VOCE : “Allora la vita è un progressivo allontanamento dalle cose della vita in direzione della morte?”
PRIMA VOCE : “Certo, ma ce ne sono di cose da vedere durante il tragitto, che poi è una lenta declinazione, sì che ce ne sono: suoni, voci di madri e gesti riflessi sull’acqua, azioni bloccate in una serie di fotografie, quelle del mare, della vacanza. Migliaia di foto che imprigionano il passato, è l’unico modo per non farlo scappare, tranne che poi le foto ingialliscono, come quelle dei vent’anni, le foto di gruppo, quelle dei parenti.”
SECONDA VOCE: “Sì, le foto di gruppo, quelle della scuola, siamo vivi lì, guardiamo al futuro, anzi sembriamo volerci arrivare al più presto, quasi correre verso il futuro”.
PRIMA VOCE: “Certo rimangono vaghi ricordi, come quelli degli errori commessi, ma anche versi come questi:
danzare con i vestiti nuovi
danzare sul mare di sera
danzare, danzare e sognare

SECONDA VOCE: “Che cosa sono, da dove vengono?”
PRIMA VOCE: “Sono canti, cantilene, cantari, cantate, in attesa di giovani donne. Senti, una volta a Bruxelles, con un dente cariato, al freddo, ho visto un’alba strana, alle otto di mattina era ancora buio, poi poco a poco è nata una luce. Era l’inverno nordico. Ma a che serve ricordarlo?
SECONDA VOCE: “Ma sì, a che serve? Ma allora a che serve tutto il resto, i destini incrociati, l’orgoglio giovanile, se poi ci si allontana, leggermente, ogni giorno di più, stabilmente, sai qual è l’unica cosa certa in tutta questa storia?
PRIMA VOCE: “No, qual è?”
SECONDA VOCE: “È che il tempo passa, questo è certo, e continua a passare, come dire: trascorre, bella parola, sembra come in una vacanza: trascorrere giorni lieti in vacanza.”
PRIMA VOCE: “Ora è tardi, cambiamo scena, non so dove sei esattamente, ma ti sento stanco.”
SECONDA VOCE: “Sì, spostiamoci da qui”.

Ora la scena è quella di un viaggio, viaggio attraverso varie lingue, forse paesi mai visti, in anni lontani. Ma senza bocca per chiamare, senza lingua per parlare.
E’ un viaggio per mare? E’ un viaggio per terra? Senza occhi per vedere, senza orecchie per sentire. Che viaggio è? Che ora è? Me lo chiedo se lo chiedono, nel corso dei vari destini, delle varie destinazioni. Partenze in anticipo, in orario, in ritardo, mezzi di trasporto appena arrivati, appena partiti. A volte si è in anticipo, a volte in ritardo, sulle cose, sugli sguardi degli altri, negli appuntamenti. Ma a volte si è in orario, ecco è quello il momento che segna l’equilibrio. Si è in orario con gli sguardi degli altri, si è arrivati al momento giusto: un figlio che guarda negli occhi suo padre, un padre che guarda negli occhi suo figlio. Si è appena in tempo per certi appuntamenti. Si è soli senza saperlo, si è in compagnia senza saperlo. Si parte sempre, alla fine, prima o poi. Una partenza è in attesa per tutti, chiuso ogni gesto, chiusa ogni memoria. Abbiamo avuto un padre, siamo diventati padri, i nostri figli diventeranno padri e madri, i figli dei loro figli diventeranno padri e madri. Sempre presenti, partiti per sempre.

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