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Qui al punto di blocco, caro Marco, posso adesso ripensare
a quando tuo padre diceva di essere stanco, diceva: “lasciatemelo
il tempo autunnale” in un giorno calmo con il cielo aperto, come
in una stanza aperta, enorme, sconfinata. Bastava la sua presenza a sostenere
le parole attraversate da un incessante rumore delle onde. Bastava la
sera in penombra, con occhi spenti. A volte il silenzio parla, pronuncia
cose enormi, perfino qui dall’altra parte dell’Atlantico,
in scene che sembrano familiari, ma che invece vanno guardate con gran
riverenza, solennità. Come quando vènti leggeri rifiutano
di tacere e riportano indietro lineamenti delle cose, delle mani. La vita
di un uomo è segnata da linee confuse, gesti degli anni, ed ancora
silenzi, altri silenzi, gesti tracciati nell’aria, anche qui dall’altra
parte dell’Atlantico. Non c’è mai abbastanza tempo
per salutare un padre. Non bastano cartoline ed altri messaggi, non bastano
le parole appena pronunciate, non bastano anni ed anni. Il semplice congedo
è solo un attimo, è lo sprazzo mattutino, ma non basta,
nemmeno quello basta. Soprattutto dopo il ventisette settembre, dopo che
i pensieri sono andati e la bocca si chiude. La morte è un abbandono?
E’ una forma di partenza? Qualcuno se lo chiede, anzi tutti se lo
chiedono, anche se non lo ammettono. E’ una dispersione della materia,
un ritorno alla terra? Anzi, è un allontanamento, ma da dove e
per dove? Ma no, per molti invece è la fine di un inseguimento.
Prima o poi il silenzio ci raggiunge, ci tocca. Sai come avviene? Te lo
confesso: c’è un mucchio di gente che parla in tono familiare,
traffico intorno, rumore delle cose. Poi poco a poco si spengono le luci,
si abbassano i volumi, il silenzio s’avvicina, arriva da lontano,
da qualche punto che abbiamo lasciato indietro, nascosto. Poco a poco
ci raggiunge, infine ci tocca. E’ lì che nasce un profondo
rispetto per il silenzio, perché è la fase ultima, l’ultimo
stadio: in silenzio e al buio, è condizione più vicina a
quella della morte. La vita è chiaroscuri, solarità, luci
varie, intermittenti, alti e bassi, passioni e delusioni, ronzii, ma la
morte, la morte no, è solo silenzio nel buio. Ora la scena cambia,
in una stanza, al buio, il silenzio è rotto da una voce, da due
voci. Le due voci si cercano, s’intuiscono, un’aria calma
nell’assenza di respiro. Ritornano luoghi amati, sfiorati dalle
dita, ora un segnale:
PRIMA VOCE : “Verso l’unica
morte si va instancabili, fatti per morire.”
SECONDA VOCE : ”Sì, programmati
per morire, anzi nati per il preciso scopo di morire.”
PRIMA VOCE : “Sì,
è buffo, verso l’unica morte possibile.”
SECONDA VOCE :
“E qual è l’unica morte possibile?”
PRIMA VOCE : “Ma
è la morte stessa, ce n’è una sola, o sbaglio?
SECONDA VOCE : “Allora la vita
è un progressivo allontanamento dalle cose della vita in direzione
della morte?”
PRIMA VOCE : “Certo, ma ce ne sono
di cose da vedere durante il tragitto, che poi è una lenta declinazione,
sì che ce ne sono: suoni, voci di madri e gesti riflessi sull’acqua,
azioni bloccate in una serie di fotografie, quelle del mare, della vacanza.
Migliaia di foto che imprigionano il passato, è l’unico modo
per non farlo scappare, tranne che poi le foto ingialliscono, come quelle
dei vent’anni, le foto di gruppo, quelle dei parenti.”
SECONDA VOCE: “Sì, le foto di gruppo, quelle della scuola,
siamo vivi lì, guardiamo al futuro, anzi sembriamo volerci arrivare
al più presto, quasi correre verso il futuro”.
PRIMA VOCE: “Certo rimangono vaghi ricordi, come quelli degli errori
commessi, ma anche versi come questi:
danzare con i vestiti nuovi
danzare sul mare di sera
danzare, danzare e sognare
SECONDA VOCE: “Che cosa sono, da dove vengono?”
PRIMA VOCE: “Sono canti, cantilene, cantari, cantate, in attesa
di giovani donne. Senti, una volta a Bruxelles, con un dente cariato,
al freddo, ho visto un’alba strana, alle otto di mattina era ancora
buio, poi poco a poco è nata una luce. Era l’inverno nordico.
Ma a che serve ricordarlo?
SECONDA VOCE: “Ma sì, a che serve? Ma allora a che serve
tutto il resto, i destini incrociati, l’orgoglio giovanile, se poi
ci si allontana, leggermente, ogni giorno di più, stabilmente,
sai qual è l’unica cosa certa in tutta questa storia?
PRIMA VOCE: “No, qual è?”
SECONDA VOCE: “È che il tempo passa, questo è certo,
e continua a passare, come dire: trascorre, bella parola, sembra come
in una vacanza: trascorrere giorni lieti in vacanza.”
PRIMA VOCE: “Ora è tardi, cambiamo scena, non so dove sei
esattamente, ma ti sento stanco.”
SECONDA VOCE: “Sì, spostiamoci da qui”.
Ora la scena è quella di un viaggio, viaggio attraverso varie
lingue, forse paesi mai visti, in anni lontani. Ma senza bocca per chiamare,
senza lingua per parlare.
E’ un viaggio per mare? E’ un viaggio per terra? Senza occhi
per vedere, senza orecchie per sentire. Che viaggio è? Che ora
è? Me lo chiedo se lo chiedono, nel corso dei vari destini, delle
varie destinazioni. Partenze in anticipo, in orario, in ritardo, mezzi
di trasporto appena arrivati, appena partiti. A volte si è in anticipo,
a volte in ritardo, sulle cose, sugli sguardi degli altri, negli appuntamenti.
Ma a volte si è in orario, ecco è quello il momento che
segna l’equilibrio. Si è in orario con gli sguardi degli
altri, si è arrivati al momento giusto: un figlio che guarda negli
occhi suo padre, un padre che guarda negli occhi suo figlio. Si è
appena in tempo per certi appuntamenti. Si è soli senza saperlo,
si è in compagnia senza saperlo. Si parte sempre, alla fine, prima
o poi. Una partenza è in attesa per tutti, chiuso ogni gesto, chiusa
ogni memoria. Abbiamo avuto un padre, siamo diventati padri, i nostri
figli diventeranno padri e madri, i figli dei loro figli diventeranno
padri e madri. Sempre presenti, partiti per sempre.
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