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L’Uomo in grigio: l’irredimibile certezza dell’assenza
di senso. Il tuo libro, insolito, credo sia unico nel panorama letterario
italiano. Già alla prima lettura, molto coinvolgente, ho avuto
la sensazione di trovarmi di fronte a uno scenario nuovo ma, al tempo
stesso, già intravisto, già frequentato.
Ho apprezzato molto la presentazione di C.A.Sitta e la postfazione di
Carlo de Ambrogio, anche se, quest’ultima, circoscritta al nulla
esistenziale, mi è parsa un po’ limitativa.
L’ho riletto con molta attenzione per penetrare la nebulosa e dare
un nome all’essenza, al profumo che ho respirato. Lo stesso percepito
qualche anno fa, quando mi facesti leggere per la prima volta parte del
tuo lavoro, ancora in fieri, più sfuggente per me allora, impossibilitato
quindi di andare oltre un istintivo incoraggiamento.
Che dire? Mi ci sono ritrovato, pienamente e lietamente, non tanto nel
percorso fisico immaginario, quanto nello spirito e nell’approdo
(se così si può chiamare) finale.
La prima impressione è quella di seguire una visione onirica, ma
poi si espande con una precisione e una sequenzialità che attestano
una lucidità programmatica, qualcosa che va ben oltre l’affioramento
di una percezione interiore. Qualcosa di analizzato, plasmato, metabolizzato.
Nel dedalo iniziale l’uomo in grigio sembra un lemure di Kafka,
ma ben presto ci si accorge che, per quanto sterminata, la pianura dell’alienazione
e della solitudine, men che meno del senso di colpa, è un territorio
angusto, già superato. Qui non c’è angoscia, non c’è
paura, e neppure la semplice assuefazione ma, al contrario, il desiderio,
la volontà di focalizzare il nucleo primordiale e ultimo della
natura umana, di abbattere il muro della prigione, pur nella consapevolezza
di non poterne valicare il confine, appagandosi di questa conquista. Vano
è inseguire il significato della vita, perché il senso vero
è l’assenza di significato.
L’uomo in grigio è una puntigliosa, acuta metafora dell’essere.
L’uomo, cittadino involontario di una metropoli invasiva e totalizzante,
da semplice abitante è diventato esso stesso abitato dalla casa,
dal luogo fisico della propria esistenza. Senza scampo. Questo personaggio
è un moderno discendente di Gregor Samsa che si trasforma, suo
malgrado, in eroe contemporaneo e compie un’esplorazione a tutto
campo della geografia della coscienza, attraverso la raffigurazione materiale
degli spazi, non per svelarne il vuoto -con lo sgomento (o il compiacimento)
del nulla (nichilismo)- ma per illuminare, indagare meticolosamente ogni
angolo più remoto, il reticolo infinito delle sue possibilità;
non con il regolo visionario ma con una lente assoluta per certificare
l’ineluttabile: e cioè che l’unica spiegazione è
l’irredimibile certezza dell’assenza di senso. Non ci sono
perché. Hier ist Kein varum è la frase dell’aguzzino
tedesco a Primo Levi che, depurata dal contesto di violenza, assume il
valore tragico dell’impotenza assoluta.
Non ci sono luoghi di redenzione, possibilità di riscatto. È
un viaggio senza ritorno, al termine del quale, esaurita ogni curiosità,
ogni possibilità d’incanto e di mistero...senza alcun’altra
domanda, inquietudine, gioia o tristezza, non resta che continuare lentamente
a camminare.
Non è semplice rassegnazione, ma l’acquisizione consapevole
dell’ineluttabile senza l’angoscia della perdita, né
incubi e velleitarismi, ma la pura e semplice conquista della pienezza
di sé. Il male (di vivere) non è sconfitto, ma è
depurato dagli orchi e dalle mitologie, dalla sua incombente immanenza.
Un viaggio di liberazione, dunque, di un prigioniero che, pur conscio
della sua impotenza rispetto ai confini, sa di poter abbattere il Muro;
che l’unico modo per sottrarsi al soffocamento è accendere
i fari, indagare ogni angolo e sfidare la bestia nera, il nulla, fissandola
negli occhi per dirle: ti vedo, so chi sei.
L’immagine conclusiva, continuare lentamente a camminare - sicuramente
la più emblematica - mi riporta alla scena finale del film “Dracula”
di Herzog in cui il Vampiro, prigioniero estenuato di un destino irredimibile,
galoppa su un destriero sopra monti, oceani, praterie che scorrono sotto
di lui nella curvatura della terra. Senza fine...
Ma la sintesi più efficace mi sembra si possa esprimere con un
esergo di Caproni, di straordinaria acutezza e lucidità: Vi sono
casi in cui accettare la solitudine può significare attingere Dio./
Ma v’è una stoica accettazione più nobile ancora:
la solitudine senza Dio./ Irrespirabile per i più. Dura e incolore
come un quarzo./ Nera e trasparente come l’ossidiana. L’allegria
ch’essa può dare è indicibile./ É l’adito,
troncata netta ogni speranza, a tutte le libertà possibili./ Compresa
quella (la serpe che si morde la coda) di credere in Dio, / pur sapendo
-definitivamente- che Dio non c’è e non esiste.
Appunto: ‘l’adito, troncata netta ogni speranza, a tutte le
libertà possibili’.
E così sia…
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Parlare del padre oltre che parlare di sé, risalire alle radici
della propria provenienza, cercare l’insondabile, è anche
un atto di gratitudine che risponde alla necessità di emendarsi
dalle proprie mancanze e metabolizzare la perdita attraverso quella sublimazione
che solo la poesia può consentire di raggiungere.
Il padre è l’arco che ha scoccato la freccia nel mondo affidandola
a un percorso che può accompagnare solo con lo sguardo. Ora le
parti si sono invertite: l’arco, esaurito il proprio gesto, ha anche
abbandonato la scena e la freccia, orfana, ora appartiene solo a se stessa
e deve proseguire la sua scia, affascinante e recondita, in fatale solitudine.
Ed è a questa dimensione che Marco Fregni si rivolge, cercando,
negli interstizi della memoria, il filo cui riannodare il dialogo, cercando
anche di sporgersi sul crinale dell’oltre. Ma nell’impossibilità
di attraversare il filtro della separazione, cerca di avvalersi di un
latore già prossimo, per infausta sorte, a varcare il confine.
Anche se, poi, nessuna cartolina arriverà dal regno dei morti.
Questo dialogo, risolvibile solo con se stesso, non è a senso unico,
perché il padre comunque è lì, incarnato nella sua
anima, origine e trama della propria esistenza.
È un dialogo incoercibile, che Marco tesse sciogliendo pensieri
e parole su una rete di riminiscenze ed immagini reali evocative, oltre
che di luoghi e movimenti, di sensazioni, odori e respiri. Il padre è
lì ‘oltre il confine’, naviga ‘nell’assenza
di ogni stella’, ‘voce al di là di ogni voce’,
oltre ‘i nomi, i racconti, le distanze’, appartiene ‘alle
forme esitanti dell’ombra’, ‘all’ignota certezza’.
Nostalgia e Assenza, sottratte al soffocamento, si temperano nella consolazione
di saperlo sfuggito alla catastrofe di un presente ipotecato ormai dall’illanguidirsi
delle antiche idealità e dall’incertezza del futuro, uno
spazio che la freccia deve ancora percorrere.
Marco Fregni si lascia attraversare dalla tragedia senza patemi, con lucidità
onirica, permeata di grande dolcezza e profondità, declinando,
con tutto l’amore possibile, il segno del risarcimento.
La sua scrittura non ha bisogno di artifici retorici, gli basta lasciar
sgorgare le parole, denudate e scolpite. Il verso si disegna da solo,
musicalità e ritmo sono insiti nel contenuto. Vale la pena ricordare
la lezione di Forug Farrokzad: “Il punto di partenza è il
contenuto, se il contenuto è completo, il problema della musicalità
e del linguaggio si risolve da sé”.
In questa dimensione, il padre diventa un’urna a cielo aperto, posata
al centro di uno spazio subliminale, senza orizzonti definiti. Un atto
che non è semplicemente contemplativo, ma soprattutto una misurata
e sommessa ribellione contro l’irresolvibile erosione del tempo.
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