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LUCIANO PRANDINI  
  “Racconti dell’uomo grigio” Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2004  
 

L’Uomo in grigio: l’irredimibile certezza dell’assenza di senso. Il tuo libro, insolito, credo sia unico nel panorama letterario italiano. Già alla prima lettura, molto coinvolgente, ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte a uno scenario nuovo ma, al tempo stesso, già intravisto, già frequentato.
Ho apprezzato molto la presentazione di C.A.Sitta e la postfazione di Carlo de Ambrogio, anche se, quest’ultima, circoscritta al nulla esistenziale, mi è parsa un po’ limitativa.
L’ho riletto con molta attenzione per penetrare la nebulosa e dare un nome all’essenza, al profumo che ho respirato. Lo stesso percepito qualche anno fa, quando mi facesti leggere per la prima volta parte del tuo lavoro, ancora in fieri, più sfuggente per me allora, impossibilitato quindi di andare oltre un istintivo incoraggiamento.
Che dire? Mi ci sono ritrovato, pienamente e lietamente, non tanto nel percorso fisico immaginario, quanto nello spirito e nell’approdo (se così si può chiamare) finale.
La prima impressione è quella di seguire una visione onirica, ma poi si espande con una precisione e una sequenzialità che attestano una lucidità programmatica, qualcosa che va ben oltre l’affioramento di una percezione interiore. Qualcosa di analizzato, plasmato, metabolizzato.
Nel dedalo iniziale l’uomo in grigio sembra un lemure di Kafka, ma ben presto ci si accorge che, per quanto sterminata, la pianura dell’alienazione e della solitudine, men che meno del senso di colpa, è un territorio angusto, già superato. Qui non c’è angoscia, non c’è paura, e neppure la semplice assuefazione ma, al contrario, il desiderio, la volontà di focalizzare il nucleo primordiale e ultimo della natura umana, di abbattere il muro della prigione, pur nella consapevolezza di non poterne valicare il confine, appagandosi di questa conquista. Vano è inseguire il significato della vita, perché il senso vero è l’assenza di significato.
L’uomo in grigio è una puntigliosa, acuta metafora dell’essere. L’uomo, cittadino involontario di una metropoli invasiva e totalizzante, da semplice abitante è diventato esso stesso abitato dalla casa, dal luogo fisico della propria esistenza. Senza scampo. Questo personaggio è un moderno discendente di Gregor Samsa che si trasforma, suo malgrado, in eroe contemporaneo e compie un’esplorazione a tutto campo della geografia della coscienza, attraverso la raffigurazione materiale degli spazi, non per svelarne il vuoto -con lo sgomento (o il compiacimento) del nulla (nichilismo)- ma per illuminare, indagare meticolosamente ogni angolo più remoto, il reticolo infinito delle sue possibilità; non con il regolo visionario ma con una lente assoluta per certificare l’ineluttabile: e cioè che l’unica spiegazione è l’irredimibile certezza dell’assenza di senso. Non ci sono perché. Hier ist Kein varum è la frase dell’aguzzino tedesco a Primo Levi che, depurata dal contesto di violenza, assume il valore tragico dell’impotenza assoluta.
Non ci sono luoghi di redenzione, possibilità di riscatto. È un viaggio senza ritorno, al termine del quale, esaurita ogni curiosità, ogni possibilità d’incanto e di mistero...senza alcun’altra domanda, inquietudine, gioia o tristezza, non resta che continuare lentamente a camminare.
Non è semplice rassegnazione, ma l’acquisizione consapevole dell’ineluttabile senza l’angoscia della perdita, né incubi e velleitarismi, ma la pura e semplice conquista della pienezza di sé. Il male (di vivere) non è sconfitto, ma è depurato dagli orchi e dalle mitologie, dalla sua incombente immanenza.
Un viaggio di liberazione, dunque, di un prigioniero che, pur conscio della sua impotenza rispetto ai confini, sa di poter abbattere il Muro; che l’unico modo per sottrarsi al soffocamento è accendere i fari, indagare ogni angolo e sfidare la bestia nera, il nulla, fissandola negli occhi per dirle: ti vedo, so chi sei.
L’immagine conclusiva, continuare lentamente a camminare - sicuramente la più emblematica - mi riporta alla scena finale del film “Dracula” di Herzog in cui il Vampiro, prigioniero estenuato di un destino irredimibile, galoppa su un destriero sopra monti, oceani, praterie che scorrono sotto di lui nella curvatura della terra. Senza fine...
Ma la sintesi più efficace mi sembra si possa esprimere con un esergo di Caproni, di straordinaria acutezza e lucidità: Vi sono casi in cui accettare la solitudine può significare attingere Dio./ Ma v’è una stoica accettazione più nobile ancora: la solitudine senza Dio./ Irrespirabile per i più. Dura e incolore come un quarzo./ Nera e trasparente come l’ossidiana. L’allegria ch’essa può dare è indicibile./ É l’adito, troncata netta ogni speranza, a tutte le libertà possibili./ Compresa quella (la serpe che si morde la coda) di credere in Dio, / pur sapendo -definitivamente- che Dio non c’è e non esiste.
Appunto: ‘l’adito, troncata netta ogni speranza, a tutte le libertà possibili’.
E così sia…

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LUCIANO PRANDINI  
  “Dialoghi con il padre” Edizioni del Laboratorio, Modena, 2007  
 

Parlare del padre oltre che parlare di sé, risalire alle radici della propria provenienza, cercare l’insondabile, è anche un atto di gratitudine che risponde alla necessità di emendarsi dalle proprie mancanze e metabolizzare la perdita attraverso quella sublimazione che solo la poesia può consentire di raggiungere.
Il padre è l’arco che ha scoccato la freccia nel mondo affidandola a un percorso che può accompagnare solo con lo sguardo. Ora le parti si sono invertite: l’arco, esaurito il proprio gesto, ha anche abbandonato la scena e la freccia, orfana, ora appartiene solo a se stessa e deve proseguire la sua scia, affascinante e recondita, in fatale solitudine.
Ed è a questa dimensione che Marco Fregni si rivolge, cercando, negli interstizi della memoria, il filo cui riannodare il dialogo, cercando anche di sporgersi sul crinale dell’oltre. Ma nell’impossibilità di attraversare il filtro della separazione, cerca di avvalersi di un latore già prossimo, per infausta sorte, a varcare il confine. Anche se, poi, nessuna cartolina arriverà dal regno dei morti.
Questo dialogo, risolvibile solo con se stesso, non è a senso unico, perché il padre comunque è lì, incarnato nella sua anima, origine e trama della propria esistenza.
È un dialogo incoercibile, che Marco tesse sciogliendo pensieri e parole su una rete di riminiscenze ed immagini reali evocative, oltre che di luoghi e movimenti, di sensazioni, odori e respiri. Il padre è lì ‘oltre il confine’, naviga ‘nell’assenza di ogni stella’, ‘voce al di là di ogni voce’, oltre ‘i nomi, i racconti, le distanze’, appartiene ‘alle forme esitanti dell’ombra’, ‘all’ignota certezza’.
Nostalgia e Assenza, sottratte al soffocamento, si temperano nella consolazione di saperlo sfuggito alla catastrofe di un presente ipotecato ormai dall’illanguidirsi delle antiche idealità e dall’incertezza del futuro, uno spazio che la freccia deve ancora percorrere.
Marco Fregni si lascia attraversare dalla tragedia senza patemi, con lucidità onirica, permeata di grande dolcezza e profondità, declinando, con tutto l’amore possibile, il segno del risarcimento.
La sua scrittura non ha bisogno di artifici retorici, gli basta lasciar sgorgare le parole, denudate e scolpite. Il verso si disegna da solo, musicalità e ritmo sono insiti nel contenuto. Vale la pena ricordare la lezione di Forug Farrokzad: “Il punto di partenza è il contenuto, se il contenuto è completo, il problema della musicalità e del linguaggio si risolve da sé”.
In questa dimensione, il padre diventa un’urna a cielo aperto, posata al centro di uno spazio subliminale, senza orizzonti definiti. Un atto che non è semplicemente contemplativo, ma soprattutto una misurata e sommessa ribellione contro l’irresolvibile erosione del tempo.

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