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CARLO ALBERTO SITTA

 
  Vita in prova
sui “Dialoghi con il padre”
 
 

La dissolvenza dei ricordi procede
ancora per linee incerte, oscurate.
I volti assorti su geografie senza memoria.
(Marco Fregni: in D'OGNI PADRE, PADRE)

Forse nel morire c’è una grande pace, una grande compostezza delle cose intorno, dove l’universo ha un attimo di magico equilibrio e tutto, anche negli abissi celesti, si tende in ascolto della quiete, e percepisce ciò che è stato. Scriveva Tiutcev [nella traduzione di Landolfi]: “Nel distacco è racchiuso un alto senso/ quanto che s’ami, un secolo od un giorno,/ l’amore è sogno, e il sogno è un solo istante”.
Se non fosse eternamente coinvolta nella vita forse la morte potrebbe passare sotto silenzio, ma la sua natura vigorosa la rende inimitabile sul versante del venir meno, anche se non rappresentabile nella sfera della vacuità. Marco Fregni nei suoi DIALOGHI accentua gli elementi drammatici del morire, che altro non è se non l’acme del vivere. Che questo fosse ben noto al teatro non diminuisce il coinvolgimento dell’Autore, il quale rimanda a se stesso il processo di identificazione con il proprio padre. Non sul piano del nulla, ma su quello della biografia, dunque di una intera vita di cui va a riappropriarsi. Mediante la poesia, questo va detto, perché non ci si identifica con le parole che descrivono, ma solo con quelle che interpretano.
Dare vita alla morte, e viceversa, è un gesto che ripaga grandemente l’immaginario. Spingersi oltre la soglia sfidando l’orrore del vuoto impreziosisce all’estremo la perdita, al punto da proiettare su chi scrive l’alone della mancanza in uno scenario vasto e abitabile. Dove abita il padre c’è sempre uno spazio per il figlio. Il regime della fine che individua un altrove possibile è ideale per addolcire la disarmonia delle rappresentazioni laceranti che ci turbano ogni giorno, ma resta un luogo mentale che si prolunga nell’invisibile, l’ipotesi di un sogno. Grazie alla vita, che vi mescola la sua realtà.
Come volevano Foscolo e Leopardi (basteranno questi) la morte è bella, sensuale e molto percettiva. Avvinta all’amore aspira tumultuosamente alla pace, alla comunione col tutto e ciò facendo la rende impossibile. Tende a quella corrispondenza divina dei sensi che non può rinunciare alle conseguenze del ricordo: il momento del commiato comporta una tensione che non vogliamo eliminare e che implica una drammatizzazione adeguata. A questo serve la poesia, che non certifica ma rappresenta.
Su questo piano Marco Fregni ha individuato, nel suo libro, strategie non lineari ma trasversali. Il duro confronto con se stesso doveva restare insoluto sul piano dei contrasti, e la trascrizione delle corrispondenze farsi voce spezzata, come di rapsodo. No, l’unica pace possibile è una presenza di sogno totalmente inconciliabile con ogni tragico evento, riflesso delle nostre più inquiete proiezioni. Per altri aspetti la morte va scritta in tempo reale, e così in parte la si vive, in parte la si sconta. Tanto per “parlare ogni giorno la tua lingua/ piccola, privata, prossima alla/ catastrofe”. E sapendo che il dolore è ricco in misura esorbitante di sinonimi, di traslati, di espressioni figurate; che lo rendono, senz’ombra di dubbio, il nostro luogo più creativo, da sempre.

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