Forse nel morire c’è una grande pace, una grande compostezza
delle cose intorno, dove l’universo ha un attimo di magico equilibrio
e tutto, anche negli abissi celesti, si tende in ascolto della quiete,
e percepisce ciò che è stato. Scriveva Tiutcev [nella
traduzione di Landolfi]: “Nel distacco è racchiuso un alto
senso/ quanto che s’ami, un secolo od un giorno,/ l’amore
è sogno, e il sogno è un solo istante”.
Se non fosse eternamente coinvolta nella vita forse la morte potrebbe
passare sotto silenzio, ma la sua natura vigorosa la rende inimitabile
sul versante del venir meno, anche se non rappresentabile nella sfera
della vacuità. Marco Fregni nei suoi DIALOGHI accentua gli elementi
drammatici del morire, che altro non è se non l’acme del
vivere. Che questo fosse ben noto al teatro non diminuisce il coinvolgimento
dell’Autore, il quale rimanda a se stesso il processo di identificazione
con il proprio padre. Non sul piano del nulla, ma su quello della biografia,
dunque di una intera vita di cui va a riappropriarsi. Mediante la poesia,
questo va detto, perché non ci si identifica con le parole che
descrivono, ma solo con quelle che interpretano.
Dare vita alla morte, e viceversa, è un gesto che ripaga grandemente
l’immaginario. Spingersi oltre la soglia sfidando l’orrore
del vuoto impreziosisce all’estremo la perdita, al punto da proiettare
su chi scrive l’alone della mancanza in uno scenario vasto e abitabile.
Dove abita il padre c’è sempre uno spazio per il figlio.
Il regime della fine che individua un altrove possibile è ideale
per addolcire la disarmonia delle rappresentazioni laceranti che ci
turbano ogni giorno, ma resta un luogo mentale che si prolunga nell’invisibile,
l’ipotesi di un sogno. Grazie alla vita, che vi mescola la sua
realtà.
Come volevano Foscolo e Leopardi (basteranno questi) la morte è
bella, sensuale e molto percettiva. Avvinta all’amore aspira tumultuosamente
alla pace, alla comunione col tutto e ciò facendo la rende impossibile.
Tende a quella corrispondenza divina dei sensi che non può rinunciare
alle conseguenze del ricordo: il momento del commiato comporta una tensione
che non vogliamo eliminare e che implica una drammatizzazione adeguata.
A questo serve la poesia, che non certifica ma rappresenta.
Su questo piano Marco Fregni ha individuato, nel suo libro, strategie
non lineari ma trasversali. Il duro confronto con se stesso doveva restare
insoluto sul piano dei contrasti, e la trascrizione delle corrispondenze
farsi voce spezzata, come di rapsodo. No, l’unica pace possibile
è una presenza di sogno totalmente inconciliabile con ogni tragico
evento, riflesso delle nostre più inquiete proiezioni. Per altri
aspetti la morte va scritta in tempo reale, e così in parte la
si vive, in parte la si sconta. Tanto per “parlare ogni giorno
la tua lingua/ piccola, privata, prossima alla/ catastrofe”. E
sapendo che il dolore è ricco in misura esorbitante di sinonimi,
di traslati, di espressioni figurate; che lo rendono, senz’ombra
di dubbio, il nostro luogo più creativo, da sempre.